sabato 10 dicembre 2016

LA VOCAZIONE DEI TAROCCHI, L'UOMO E DIO “AL PLURALE”


 
È straordinario che nel dialogo Eutifrone, il primo dialogo che compare nell'edizione critica delle opere di Platone, il tema della santità compaia subito, all'istante.

Caro Socrate, costoro non sanno niente di cose di religione, e non distinguono affatto che cosa è il santo e cosa il non santo. (Platone, 4e)

Sono propenso a credere che uno dei grandi temi della riflessione antica, come la santità, non compaia in limine ad una porta così gloriosa, com'è appunto la Filosofia di Platone, senza una ragione d'ordine iniziatico. Come a dire: “Bene, ci sono delle priorità. Cos'è fondamentale per la nostra Scuola (la scuola platonica)? Cosa ci tocca insegnare per prima cosa? Sappiamo che il Dio supremo, il Bene [1], si manifesta in coloro che sono santi … ecco! Occorre dunque distinguere «che cosa è il santo e che cosa il non santo. All'inizio la “santità”! Dovremmo insegnarla per prima cosa, poiché tutto il nostro sapere passa per essa. Santificare la vita, celebrarla e innalzarla ad ogni istante, questo è il fondamento”.

Oltre ciò un dato risulta evidente: per le antiche vie di conoscenza l'esistente non continua a vivere senza un tale riconoscimento. La sola esistenza biologica non veniva considerata Vita.
 
Lo intendi – scrive J.Böhme – se vai fuori da ogni creatura, e, per ogni creatura e natura, diventi Nulla: perché sei nell'uno eterno, che è lo stesso Dio, e così provi la più eccelsa virtù dell'Amore.


La via sacrosanta della vita è dunque più stimolante del fatto stesso di vivere in un modo qualunque. Tale fu l'impronta decisiva tanto per la parte colta della Grecia classica, quanto per i kabbalisti, Figli d'Israele.

Una domanda: Quei saggi come vollero riconoscere la santità e dunque riconoscersi nell'Arcano che pre-esiste (forse per - siste) ad ogni singola vita? Lo scopriremo strada facendo.

L'Uomo Santo è invero un arcano, certo! È un mistero a cui tutte le Carte alludono. E nei Tarocchi si può addirittura trovare il suo percorso, il modello della sua crescita spirituale, quantomeno un segno, un indizio, un crocevia.

Nei Tarocchi si mostra come la singola esistenza abbia modo di riconnette-si per vivere quali esseri magnificati, innalzati sopra il fluire dei fenomeni, delle contingenze, degli “scazzi”.

Ma per prima cosa occorre esser capaci di separare la santità contenuta nel simbolismo dei segni (gli Arcani), dalle scorie che la superstizione e la tendenza idolatrica dei popoli vi hanno inserito.


***

E la luce fu. Dio vide che la luce era buona e separò la luce dalle tenebre (Gn, 1, 3-4)

Separare, produrre o fare, realizzare la differenza tra “questo” e “quello”, tra ciò che sta in “alto” e ciò che sta in “basso”, tra il “Bene” e il “Male”, ecc. Questo è il punto cruciale, almeno all'inizio.

Se oggi molta parte della nostra comunicazione produce rumore, e la confusione dei messaggi, dei segni e dei simboli soprattutto (pensate alle pubblicità e al mondo subliminale a cui ci riconnettono), sembra evocare una Babele post-moderna, per la Filosofia questa situazione, già allora, venne vista come una forma più o meno patologica di delirio, in termini “tecnici” come Caos.

Arginare il Caos e ricondurlo ad una dialettica armonica che preservi e addirittura incentivi la creatività, è uno dei compiti degli uomini ritenuti santi: siano essi filosofi Greci, kabbalisti ebraici, italiani, oppure chassidim dell'Europa medio-orientale, nuovi tarologi, non importa.

Quello che davvero conta è il compito: esso deve essere chiaro, tanto che la mente quanto il corpo risultino sufficientemente abili per svolgerlo al meglio.

La vocazione dei Tarocchi riguarda ancor di più l'intima essenza di tale compito, ossia: la sovrana libertà e l'efficacia della grazia divina nella forma di una consacrazione – come vedremo – delle proprie energie interne di cui i vari Arcani sono simboli (o segni) poderosi.

Dunque, «separare la santità dei segni», come più volte abbiamo ripetuto, significa saper riconoscere cosa muove dietro la nostra “scorza” esteriore, per ritrovare libertà personale e grazia nel mondo.

È un discorso profondamente umano quello tarologico, cosciente invero che la «presenza divina o del Creatore», la sua «immanenza» (Shekinah), sia il compimento totale di tutte le libertà personali e di tutte le vite in grado di esprimersi nella grazia – ossia: senza sforzo, senza danno o violenza per nessuno.

In epoca di guerre e di avversioni, di soprusi e offese, la presenza divina scompare dall'orizzonte del mondo, ma non come persona, poiché come persona non esiste.

Mai è esistito un Dio antropomorfico che non fosse il volto dell'uomo, segnato dalla diversità delle singole individualità. Esse sono capaci di esprimere tutta la bellezza, tutta l'armonia di cui terra e cielo hanno bisogno.

Si capisce allora per quale motivo Dio si presenti per primo nella Bibbia con un nome “al plurale” (~yhla, Elohim), e si capisce perché tutta la pluralità e comunione di volti umani diventi “In principio” il senso autentico della Creazione.

Creazione, nella sua interpretazione “santa”, in accordo con il compito ritenuto essenziale dai grandi uomini e donne del passato, ha un primo significato nel Riconoscimento.

Mettiamola in questi termini (che non sfuggirebbe ad una esegesi attenta del testo nella sua versione originale): Io posso riconoscere Dio nel mondo, solamente se riconosco l'altro essere umano come molteplice aspirazione di qualcosa che ci accomuna pure nella diversità delle nostre vite. Poiché una vita realizzata, ossia divina, in accordo al Dio quale Bene supremo (Platone), inizia sempre con l'esprimere la sovrana libertà e l'efficacia della grazia di ciascun essere.

Questo è un primo tentativo di traduzione della Torah, come essa fu scritta nella santità dei suoi arcani (ovvero le lettere ebraiche). È solo l'inizio, eppure molto ci sarebbe ancora da dire. Le prime tre parole traslitterate sono «bə-rê-šîṯ bā-rā ’ĕ-lō-hîm». Noi le traduciamo con «In principio Dio creò» (Gn, 1,1) Non è male, ma ora ne sappiamo di più.




Michel

10122016

***
[1] «Infatti, Platone disse che l'essenza della divinità procedette da tre ipostasi, e che il Dio supremo è il Bene, dopo di lui e secondo è il demiurgo, terza l'anima del mondo: perché la divinità procede fino all'anima» (Porfirio, Storia della filosofia, Rusconi, 1997, pp. 105 – 107.)



1 commento: